mercoledì 17 novembre 2010

Vengo via con te


Anche per dare finalmente retta al “povero” Rob Brezsny, l'oroscopista di Internazionale, che un paio di oroscopi fa mi diceva che dovevo comunicare quello che pensavo, ritorno a scrivere. E lo faccio anche perché spinta da una paio di fatterelli su cui si sono sprecate chiacchiere e polemiche. Come è facile immaginare, per chi mi conosce un po' e magari mi legge, il programma di Fazio e Saviano, Vieni via con me, mi piace, lo seguo con interesse e mi ha incuriosito fin dal suo annuncio.
Dopo la seconda puntata, quindi, ho pensato che avevo voglia di scrivere quello che penso su alcuni aspetti. Primo: Saviano. Marco Travaglio l'ha criticato (“datti una spettinata”, ha scritto sul Fatto) e qualcuno – con infantilismo tutto italiano – ha detto che Travaglio è geloso.
Io invece penso che Saviano sia una persona che ha il mio più profondo rispetto, una giornalista e un autore capace, un ragazzo di 32 anni che vive con la scorta. Gli riconosco molte capacità e moltissimo coraggio, ma non mi aspetto che sia onnipotente. La trasmissione sui libri che aveva fatto sempre con Fazio nel 2009 era molto ben riuscita; qui, specie nella prima puntata, è apparso un po' legato. Ma non mi stupisce: forse la televisione non è il suo mezzo (anche se credo che il discorso sul codice d'onore delle mafie della seconda puntata sia stato interessante e ben espresso). Ma, tornando alla tv, è mica una colpa non essere bravi a fare tv così come a scrivere? Per me, no. Conta più il contenuto e sono convinta che da questo punto di vista Saviano abbia da dire cose che forse non abbiamo ancora sentito.
Secondo: riguardo poi a quello che ha detto, mi sorprendo del risentimento del ministro dell'Interno Roberto Maroni. Non mi pare che il tono fosse di un'accusa personale al ministro. Non è la prima volta che Saviano – ma prima di lui, lo dimostrano le indagini – dice che la malavita non guarda le tessere di partito. Destra o sinistra, chi si fa comprare, è acquistabile. Ragion per cui: può Maroni essere certo che nessuno della Lega si sia fatto tentare?
Terzo: questa mattina ho sentito un pezzo, il finale, della rassegna stampa di RadioTre, condotta da Luca Telese. Un ascoltatore gli ha chiesto se Saviano, citando un consigliere regionale lombardo della Lega che, pur non indagato, risulta aver incontrato un esponente della 'ndrangheta che gli chiedeva dei favori, non avesse messo in atto quello stesso meccanismo del fango di cui aveva parlato nella prima puntata di Vieni via con me. Partendo da un piccolo fatto, diceva Saviano, si infanga la persona. Telese, dopo un attimo di pausa, gli ha risposto: “Sì, se la mette in quest'ottica, le do ragione”. Io invece dico di no: la differenza sta nel fatto che la macchina del fango – questo è il discorso fatto da Saviano – parte da un piccolo fatto privato. Ora, la richiesta di favori a un amministratore pubblico non mi pare risulti nell'ambito dei fatti privati: non è insomma come indossare un calzino azzurro.

domenica 7 febbraio 2010

La storia che ti sfiora

La storia dell'(ex) ospedale psichiatrico San Giovanni di Trieste, la storia di Franco Basaglia, la storia della medicina di quegli anni e la nostra storia di adesso mi hanno già sfiorato una volta, per caso, quando nemmeno sapevo bene chi fosse Basaglia, quando fossero stati chiusi i manicomi e perché, che il San Giovanni era (se non sbaglio) il più grande di questi manicomi in Italia (è grande come un quartiere, ci passa una strada che attraversa il bosco, ha ancora oggi un muro di cinta che una volta separava chi ci stava dentro dal resto della città).
Era per uno stage, mettere in piedi un ufficio stampa per raccontare cosa avevano fattouna delle Asl triestine, insieme a due università europee, una tedesca e una britannica. Poi non lo feci più, con un po' di rimpianto: penso ancora che sarebbe stata una bella esperienza.
Fu così, però, che per la prima volta conobbi la storia di "Marco Cavallo", un cavallo blu, di legno, che attraversò Trieste e spalancò le porte del San Giovanni.
Stasera guarderò con curiosità la fiction su Basaglia, sperando che sia fatta bene e che mi racconti qualcosa di più di quella storia che ancora non conosco per intero. E che spero continui ancora a sfiorarmi e sfiorarmi, finché non avremo modo di incontrarci per bene faccia a faccia.

giovedì 31 dicembre 2009

Mind the gap

Non intendo mancare neanche quest'anno l'appuntamento con il mio bilancio annuale. Et voilà...

Mi pare il caso di procedere con il bilancino perché è stato l'anno dei chiaroscuri, iniziato con molto ottimismo, nonostante le difficoltà.
Mi tocca ammettere che amarezze e fastidi me ne hanno rifilati in quantità sufficiente, ma mi consolo: credo di esserne uscita decentemente, senza cedere troppo all'istinto vendicativo che certe cose mi suscitano.
La mia quota pro-capite di cinismo dovrebbe essere incrementata, ma siccome non credo agli "splendidi" (ad esempio, quelli che dicono di lavorare tanto e godersi la vita) e penso che le molte cose storte vadano raddrizzate a suon di sudore. Anche se sbuffo, e non poco, non è data altra via.
Soffermandomi sugli inglesi: sanno farsi cordialmente detestare con quel loro atteggiamento per cui sembra abbiano sempre qualcosa da insegnare agli altri, ma per tutto il resto si sono conquistati il mio rispetto. La Gran Bretagna è (in media) un Paese Civile. Diversamente dall'Italia (dove tutto o quasi è il contrario della ragionevolezza).
Respirare meritocrazia, fish'n'chips, libertà (di stampa), kebap, meticolosità, sushi and Honk Kong's street food, efficienza, ti cambia la prospettiva, credo indelebilmente.
Comprendo l'assuefazione, ma non giustifico l'ottusità. Soprattutto di fronte all'evidenza.
Per questo sono sempre più un'esterofila convinta, con l'idea che l'Italia non manchi di potenziale e di capacità, ma di volontà, onestà e senso di responsabilità. Così è se vi pare.

Progetti per il 2010? Credo che dovrà essere un anno creativo e tenace, contro ogni previsione, difficoltà, appunto e disappunto. Con un promemoria:
Mind the gap. Attenzione alla differenza.

giovedì 3 dicembre 2009

Fatti

Leggendo su Internet alcuni articoli usciti sul Fatto Quotidiano ho iniziato a pensare quanto in Italia (e da parecchio tempo, ormai) si sia arrivati al punto di non dire, non scrivere i fatti per non apparire politicamente scorretti, schierati, frustrati invidiosi del potere e dei soldi e via discorrendo.
Il problema, giornalisticamente parlando e non, è che sembra che non sia possibile raccontare i fatti, senza voler dare ragione a qualcuno, senza voler sostenere qualcuno. Come se i fatti fossero solo degli "orpelli" strumentalizzabili secondo necessità, non fatti con un valore intrinseco.
È vero che questo è spesso, per non dire quasi sempre, il modo in cui si fa giornalismo in Italia: prendi un fatto e strumentalizzalo. Tirane fuori quello che più ti fa comodo e poi chi vivrà vedrà. Rara la volta che ci sia qualcuno che si prende la briga di fare le pulci a quel che legge, quindi la malafede resterà impunita.
Bene: io penso che si sia fatto credere - a giornalisti, lettori, editori, parlamentari, tirapiedi, lustrascarpe, medici, salumieri...(categorie a scelta, tendenti a infinito) - che strumentalizzare i fatti fosse l'unico modo di utilizzarli, se non quasi la "missione", del giornalismo italiano.
Bene, ripeto: si è fatto credere.
Da questa credenza deriva il fatto che anche chi ogni tanto prova a chiedersi qual è il fatto, spesso poi si domanda anche (non c'è bisogno di essere giornalisti): "ma faccio bene o no a scriverlo? a parlarne? a dichiarare pubblicamente come la penso?".
Potete anche non rispondere a voce alta (ugualmente non c'è bisogno di essere giornalisti), ma guardatevi dentro e rispondete a voi stessi.
Una seconda conseguenza è che quando si scrivono i fatti, quei fatti stessi sono discreditati. Chi li ha scritti, chi ne ha parlato, lo ha automaticamente fatto per conto di qualcuno. Non c'è via di scampo. Chiedete alla "gente" (italiana) e contate quante risposte diverse (e motivate) ottenete.
Questo breve quadretto spiega, credo, perché i giornalisti in Italia sono una categoria quasi totalamente discreditata.
In questi giorni ho seguito il dibattito nato dalla lettera di Pier Luigi Celli a Repubblica, quella in cui diceva al figlio laureando di lasciare l'Italia e andare all'estero. Sono giunta alla conclusione che di certo Celli parla di fatti nella sua lettera, ma non posso non chiedermi: che cosa succede se tutti andiamo via? Certo, l'evoluzione insegna che talvolta l'implosione è salutare: tabula rasa e poi si ricostruisce da zero.
Ma quel che c'è di buono? (Consideriamo che se all'estero in tanti riescono ad avere quello che in Italia costerebbe loro molto più grandi e ingiustificate fatiche in termini di meritocrazia, vuol dire che del buono c'è).
La costante illusione di numerosissimi italiani è di poter ottenere quel che chiedono senza sforzo (nel peggiore dei casi, è ritenuto "dovuto"). Questa illusione priva della dignità. Se abbiamo un'idea simile in testa, ci sarà senz'altro qualcuno che cercherà di approfittarne.
È come il patto con il diavolo: ottieni quello che vuoi e sei spacciato per sempre (o quasi). Non bisogna essere giornalisti, ma vale lo stesso.

sabato 28 novembre 2009

Con un colpo di spugna

È passato parecchio tempo dall'ultima volta che ho scritto e oggi torno qui, in prima persona, in cerca di un po' di "libertà".

Mi sento un po' un amante tradito, che ha molta dedizione e gioca con persone che non stanno alle stesse regole. Fastidiosamente ho questa sensazione riguardo a più campi, non solo dove tutto sommato resta intollerabile, ma era comunque prevedibile.

E mi secca di più questo fastidio che viene da cose passate e sul quale non ho potere, non ne ho mai avuto. Forse è vero che c'è più da temere il passato, con le sue zavorre, che non il futuro.

Quando mi capita di rileggere quello che ho scritto mi sembra - e mi sorprende sempre - di essere riuscita a trovare parole giuste, esatte, per esprimere quello che mi passava per la testa. Sembra tutto così lampante che mi chiedo: "ma perché pensavo di non avere le idee chiare allora?".

Ecco, allora, adesso l'idea che ho è che voglio fregarmene di tutte quelle cose che non sono andate bene e di quelle che non vanno bene. E circondarmi di quelle che mi appagano, che sono reali e non solo immaginazione.

E godermi questo sottile piacere, l'appagamento, che già nel nome in sè ti dà soddisfazione, sembra cioccolato al latte, sembra una carezza...


mercoledì 5 agosto 2009

Considerazioni... fatte con i piedi

Una volta, qualche mese fa, mi sono trovata in una piazza ad aspettare un amico per andare al cinema.
Era la prima volta che mi capitava di fermarmi in quel punto, con davanti una fontana con in cima una statuetta chiamata "Eros" (in realtà, ho letto fu fatta fare per rappresentare non il dio greco dell'Amore, ma l'Amore in senso cristiano... vale a dire la solidarietà, la carità...).
Siccome non arrivava nessuno (non mi piace aspettare...) e passava un sacco di gente (che normalmente mi avrebbe dato anche fastidio), mi sono messa a fissare per terra, in un punto a caso, finché un piede di passaggio ha conquistato la mia attenzione.
Curiosamente non so dire se fosse un piede femminile o maschile, non mi ricordo che tipo o che colore di scarpe avesse però mi ha fatto iniziare un gioco, forse infantile ma ipnotico.
Guardare le scarpe e indossare chi può scegliere di indossarle e perché.
Sembra buffo, ma le scarpe "parlano". E in una città anticonformista - o semplicemente menefreghista in fatto di dettami di stile - parlano molto.
Ci sono scarpe turistiche, di alta finanza, con il tacco che nasconde una vita insoddisfacente e molti perché, infradito che se ne fregano del venticello appuntito e gelato, una varietà di scarpe da tennis che va dalle All Stars (che qualcuno mi ha detto che tutti i francesi le indossano) ai modelli americani ma tutti rigosamente "distrutti".
Parlano e camminano, non si fermano mai e riassumono tutto in una frase.
Quando non basta, allora alzi lo sguardo fino alle caviglie, ai pantaloni, al vestito, alla cintura, alla borsa, agli occhiali da sole, alla giacca.
Ogni tanto però ingannano anche loro: scarpe da tennis e tailleur (di notte diventano zoccoli e abito elegante!).
La gamma di colori copre lo spettro dell'arcobaleno. La loro fretta così non dà fastidio. Riempie solo di immagini piacevoli, diventa un ricordo confortevole. Attiva l'immaginazione.



Non è molto diverso dall'osservare le persone in metropolitana. Ho visto un sacco di gente dormire in metro. A me non piace. Non ci riesco. Mi preoccupo: e se sbaglio fermata? Potrebbe essere una metafora: dormire in metro è essere indifferenti a chi c'è attorno, non molto diverso da come si vive, a volte.
Non che osservando le persone, adesso possa dire di ricordarmele davvero. Però anche questo è un bel campione di "umanità concentrata" e magari sarà indiscreto e pretenzioso "farsi i fatti loro". Dagli ubriachi, agli amici appena arrivati, alle coppie che hanno litigato, a quelle che trasportano cartoni e valige, ai gruppi di amici che tornano all'ostello, alle due turiste che vogliono andare a "vedere uno stadio".
La metro ha un'anima, credo. Che a volte suona musica - pop e rock in settimana, classica nel fine settimana - altre volte parla, ricordandoci di fare attenzione alla "differenza". ;-)