giovedì 3 dicembre 2009

Fatti

Leggendo su Internet alcuni articoli usciti sul Fatto Quotidiano ho iniziato a pensare quanto in Italia (e da parecchio tempo, ormai) si sia arrivati al punto di non dire, non scrivere i fatti per non apparire politicamente scorretti, schierati, frustrati invidiosi del potere e dei soldi e via discorrendo.
Il problema, giornalisticamente parlando e non, è che sembra che non sia possibile raccontare i fatti, senza voler dare ragione a qualcuno, senza voler sostenere qualcuno. Come se i fatti fossero solo degli "orpelli" strumentalizzabili secondo necessità, non fatti con un valore intrinseco.
È vero che questo è spesso, per non dire quasi sempre, il modo in cui si fa giornalismo in Italia: prendi un fatto e strumentalizzalo. Tirane fuori quello che più ti fa comodo e poi chi vivrà vedrà. Rara la volta che ci sia qualcuno che si prende la briga di fare le pulci a quel che legge, quindi la malafede resterà impunita.
Bene: io penso che si sia fatto credere - a giornalisti, lettori, editori, parlamentari, tirapiedi, lustrascarpe, medici, salumieri...(categorie a scelta, tendenti a infinito) - che strumentalizzare i fatti fosse l'unico modo di utilizzarli, se non quasi la "missione", del giornalismo italiano.
Bene, ripeto: si è fatto credere.
Da questa credenza deriva il fatto che anche chi ogni tanto prova a chiedersi qual è il fatto, spesso poi si domanda anche (non c'è bisogno di essere giornalisti): "ma faccio bene o no a scriverlo? a parlarne? a dichiarare pubblicamente come la penso?".
Potete anche non rispondere a voce alta (ugualmente non c'è bisogno di essere giornalisti), ma guardatevi dentro e rispondete a voi stessi.
Una seconda conseguenza è che quando si scrivono i fatti, quei fatti stessi sono discreditati. Chi li ha scritti, chi ne ha parlato, lo ha automaticamente fatto per conto di qualcuno. Non c'è via di scampo. Chiedete alla "gente" (italiana) e contate quante risposte diverse (e motivate) ottenete.
Questo breve quadretto spiega, credo, perché i giornalisti in Italia sono una categoria quasi totalamente discreditata.
In questi giorni ho seguito il dibattito nato dalla lettera di Pier Luigi Celli a Repubblica, quella in cui diceva al figlio laureando di lasciare l'Italia e andare all'estero. Sono giunta alla conclusione che di certo Celli parla di fatti nella sua lettera, ma non posso non chiedermi: che cosa succede se tutti andiamo via? Certo, l'evoluzione insegna che talvolta l'implosione è salutare: tabula rasa e poi si ricostruisce da zero.
Ma quel che c'è di buono? (Consideriamo che se all'estero in tanti riescono ad avere quello che in Italia costerebbe loro molto più grandi e ingiustificate fatiche in termini di meritocrazia, vuol dire che del buono c'è).
La costante illusione di numerosissimi italiani è di poter ottenere quel che chiedono senza sforzo (nel peggiore dei casi, è ritenuto "dovuto"). Questa illusione priva della dignità. Se abbiamo un'idea simile in testa, ci sarà senz'altro qualcuno che cercherà di approfittarne.
È come il patto con il diavolo: ottieni quello che vuoi e sei spacciato per sempre (o quasi). Non bisogna essere giornalisti, ma vale lo stesso.

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